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21 July, 2011

Cosa resta dei No Global cattolici?
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di padre Piero Gheddo*
MILANO, martedì, 19 luglio 2011 (ZENIT.org).- Dieci anni fa (20-22 luglio 2001) si svolgeva a Genova il G8. Gli otto Grandi del mondo si riunivano per discutere su come, nel tempo della globalizzazione, aiutare i “paesi in via di sviluppo”, specialmente quelli dell’Africa nera. Però in quei giorni vennero alla ribalta non i poveri che soffrono la fame, ma i “No Global” che manifestavano contro gli 8 Grandi e nelle frange estreme mettevano a ferro e fuoco la città di Genova.
Nel movimento No Global, circa il 60% dei 200.000 manifestanti erano cattolici, venivano da parrocchie e associazioni cattoliche. Le guide, Vittorio Agnoletto, Luca Casarini e altri si proclamavano cattolici, ma l’ideologia che i No Global esprimevano non era certamente ispirata dalla fede. D’altra parte, il “Manifesto delle Associazioni cattoliche ai leader del G8”, firmato il 7 luglio da decine di associazioni cattoliche e istituti religiosi e anche missionari, era la chiara prova di una sudditanza dei cattolici alla corrente dei contestatori di professione, che si ispirano al marxismo e al laicismo. Si ripeteva lo schema del Sessantotto. I cattolici all’origine della protesta del 1968, come del 2001; all’inizio, in ambedue i casi, le gerarchie cattoliche tentano il dialogo con i giovani contestatori, mostrando una notevole apertura alle loro ragioni. Ma poi, nel 1968 come nel 2001, la Chiesa si accorge ben presto che la buona fede e l’indubbia generosità dei giovani non bastano a moderare gli eccessi della protesta e l’apporto culturale dei cattolici viene fagocitato dalle altre componenti del movimento. Era successo nelle assemblee di occupazione delle università nel Sessantotto, succede nei cortei e nelle manifestazioni del luglio 2001 a Genova.
Oggi, dieci anni dopo, i No Global sono praticamente scomparsi, la storia ha dimostrato che la globalizzazione non è un’invenzione dei paesi ricchi per opprimere meglio quelli poveri, ma è “il treno dello sviluppo”: i popoli che riescono a salirci sopra si sviluppano (specie in Asia e America Latina), gli altri rimangono indietro, cioè i popoli di gran parte dell’Africa nera, che nel 1970 partecipavano al 3% del mercato globale, oggi fra l’uno e il due per cento!
Il sociologo cattolico Paolo Sorbi, passato attraverso le esperienze del Sessantotto e di Lotta Continua, stigmatizzava i No Global cattolici perché la loro fede e identità era stata del tutto oscurata: “I contestatori cattolici corrono il rischio di trasformarsi nei reggicoda di una grande razionalizzazione borghese”. Beppe del Colle scriveva su Famiglia Cristiana: “L’impressione più forte suscitata dal terribile G8 di Genova è di generale sconfitta… Hanno perso i Grandi, ma hanno perso anche i piccoli, i presunti ‘nemici della globalizzazione’, che si sono rivelati furiosi demoni del Nulla, vandali odiatori di tutto quello che ha senso per le persone civili”.
Ferdinando Adornato denunziava su Il Giornale “l’inganno culturale” in cui erano caduti i cattolici: “Non si sfugge alla sensazione che alcuni settori del mondo cattolico rischino di restar vittime di un grande inganno culturale già commesso nei dintorni del Sessantotto, quando migliaia di ragazzi furono portati a confondere la Fede con la Rivoluzione, la Testimonianza evangelica con la Violenza… L’inganno consiste nell’annacquare totalmente l’identità cristiana nei riti di una comune e indistinta protesta contro l’egoismo e le disuguaglianze sociali”. Il sociologo Giuseppe De Rita si chiedeva ironicamente su Avvenire: “A cosa è servita la presenza cattolica nelle manifestazioni e nei cortei di Genova? E cosa ne resta dopo il calor bianco raggiunto in quei giorni?”. Gianni Baget Bozzo scriveva sul Giornale: “Genova ha raggiunto due vertici: la più violenta manifestazione del nichilismo anti-occidentale e un singolare impegno dei movimenti cattolici italiani per le tesi antiG8… Così la Chiesa ha offerto ai nichilisti anti-occidentali una copertura religiosa e al tempo stesso una massa numerica che è servita a coprire l’azione dei violenti”.
Ero a Genova nel luglio 2001 (nella casa del Pime a Nervi), ho partecipato all’inizio della prima manifestazione e alla sera ho avuto, allo stadio Carlini, una animata conversazione con un buon gruppo di giovani, sotto uno striscione che dichiarava: “Un altro mondo è possibile”. Io suggerivo: “Il mondo nuovo è possibile, ma solo a partire da Cristo”. Un discorso che suscitava ironia e opposizione: noi crediamo in Cristo, ma cosa c’entra questo nei problemi politici e economici del G8? Mi torna alla mente il grande e caro Davide Turoldo, che in un dibattito sul Vietnam, a Torino nel 1973, tuonava: “Ricordati Gheddo, che il socialismo è l’unica speranza dei poveri!”. Dopo il G8 di Genova, in un dibattito alla televisione su questo tema, alla mia proposta di convertirci a Cristo come modello di amore al prossimo, che ha donato la sua vita per gli altri, una personalità dichiaratamente cattolica (vivente), ha commentato: "La conversione a Cristo è un fatto personale e non è importante. L'importante è amare l'uomo ...". Ma come "amare l'uomo"? Per noi cristiani la verità sull'uomo ha un nome preciso e nessun altro nome: Cristo.
Ripensando alle discussioni infuocate di quegli anni, il motivo fondamentale di dissenso che ancor oggi mi separa dagli epigoni cattolici del movimento No Global è questo. I cattolici dovrebbero sapere che l’unica vera e decisiva rivoluzione che salva l’uomo e l’umanità l’ha compiuta Cristo duemila anni fa. L’esperienza dei missionari conferma che il contributo essenziale della Chiesa alla crescita di un popolo e alla sua liberazione da ogni oppressione non è l'aiuto materiale o tecnico, quanto l'annunzio di Cristo: una famiglia, un villaggio, diventando cristiani passano da uno stato di passività, negligenza, divisione, ad un inizio di cammino di crescita e di liberazione. Il perché mi pare evidente e andrebbe ripreso e approfondito dai No Global cattolici e portato coraggiosamente alla ribalta nelle manifestazioni.
Non capisco perché in Italia, anche nelle riviste missionarie, questi discorsi si fanno poco o nulla e sembra quasi che noi ci siamo fatti missionari per distribuire cibo, costruire scuole, condividere la vita dei poveri, protestare contro il debito estero e la vendita delle armi ai paesi poveri... Insomma non mi risulta chiaro, nell'animazione e nella stampa missionaria in Italia, che il primo vero dono che noi portiamo ai popoli è la fede in Cristo, che trasforma la vita e la società, creando un modello nuovo e più umano di sviluppo. I cari e illusi confratelli e suore missionarie, che hanno recentemente manifestato in Piazza San Pietro, qualificandosi come tali, contro la politica italiana che vuol privatizzare la gestione dell’acqua, hanno solo contribuito ancora una volta a far apparire i missionari come “operatori sociali”. E’ solo un esempio di una tendenza generale che, nata nel Sessantotto, è riemersa a Genova nel 2001 e continua tuttora.
Il 2 dicembre 1992 l’arcivescovo di Milano, card. Carlo Maria Martini, parlando ai missionari del Pime impegnati nella stampa e nell’animazione missionaria in Italia, citava le lettere di San Francesco Saverio, dicendo che “ancor oggi quelle lettere hanno una forza comunicativa straordinaria. Noi vorremmo che la nostra stampa missionaria fosse sempre così, cioè che avesse questa forza comunicativa del Vangelo, proprio attraverso le notizie sulla diffusione del Vangelo… Ridateci lo stupore del primo annunzio del Vangelo, ridatelo alle nostre comunità, non soltanto ai cristiani delle terre di missione, ma anche a noi, perché questo stupore riscaldi il cuore di tutti”.

13 July, 2011

La meravigliosa parabola del grembo
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ROMA, venerdì, 8 luglio 2011 (ZENIT.org).- “Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: “Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti”.
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: “Perché a loro parli con parabole?”. Egli rispose loro: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti, a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.” (Mt 13,1-23).
“In riva al mare..tanta folla..sulla spiaggia” (Mt 13,1): ecco una fotografia che oggi Matteo sembra avere scattato in una delle tante località nostrane di vacanza “in riva al mare”, non quello di Galilea, ma..tra i nostri ombrelloni.
L’accostamento non è banale, poiché il contesto pubblico della parabola evangelica del seminatore, del seme e del terreno, per certi aspetti, non era allora molto diverso da quello di oggi: una moltitudine di folla per lo più deconcentrata, distratta e superficiale.
Certo, nel quadro di Matteo non ci sono i p.c., né le radioline, e le persone sono tutte vestite, ma, pur lontanissimi dalle mondanità menzognere dei nostri litorali, i contemporanei di Gesù sono anch’essi in una grande ignoranza, poiché non capiscono che il Signore non è il taumaturgo venuto per guarire le malattie del corpo, né il liberatore politico atteso da molti in Israele.
Con tutta probabilità, Gesù è consapevole di questo clima confuso che lo circonda mentre sale sulla barca per parlare alla gente; vale a dire che anche per Lui, la profezia che Matteo cita da Isaia (“Udrete, sì, ma non comprenderete; guarderete, sì, ma non vedrete” – Mt 13,14), più che significare una punizione per la denunciata durezza dei cuori, riconosce il limite oggettivo ed incolpevole dei sensi umani quando sono posti a tu per tu col Mistero di Dio (il Signore spiega infatti ai discepoli: “perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono” - Mt 13,13 - come a dire: non lo possono).
La gente guardava la figura di Gesù, ma come poteva “vedere” in Lui il Figlio del Padre? udiva chiaramente la sua voce forte e dolce, ma come poteva “comprendere” quel mistero del Regno di Dio che solo nel giorno di Pasqua si sarebbe manifestato con sfolgorante chiarezza?
“Se non fosse venuto lo Spirito, il mondo e la Chiesa non avrebbero mai capito che la vicenda di quell’ebreo di Nazaret, crocifisso, era più che una questione di provincia, storicamente priva di interesse. Essa era, anzi, davvero incomprensibile” (H.U.V.Balthasar, Tu coroni l’anno di grazia, p. 103).
Per questo, dunque, Gesù “parlava loro con parabole” (Mt 13,10): per introdurli nella comprensione del suo Mistero.
Lo spiega, magistralmente, Benedetto XVI:
“..ogni educatore, ogni maestro che vuole comunicare nuove conoscenze a chi lo ascolta si servirà sempre anche dell’esempio della parabola. Per mezzo dell’esempio egli avvicina al pensiero di coloro a cui si rivolge, una realtà che fino a quel momento si trova fuori del loro campo visivo. Vuole mostrare come, in una realtà che fa parte del loro campo di esperienza, traspaia qualcosa che prima non avevano ancora percepito. Mediante le similitudine, egli avvicina loro ciò che è lontano, di modo che, attraverso il ponte della parabola, giungano a ciò che fino a quel momento era loro sconosciuto. (La parabola) deve guidarci al mistero di Dio, a quella luce che i nostri occhi non riescono a sopportare e alla quale, di conseguenza, ci sottraiamo. Affinché essa diventi accessibile per noi, Egli mostra la trasparenza della luce divina nelle cose di questo mondo e nelle realtà della nostra vita quotidiana.(…) Attraverso la vita di tutti i giorni ci mostra chi siamo e che cosa dobbiamo fare di conseguenza. Ci trasmette una conoscenza impegnativa, che non ci porta solo e anzitutto nuove cognizioni, ma cambia la nostra vita. E’ una conoscenza che ci reca un dono: Dio è in cammino verso di te. Ma è anche una conoscenza che ci chiede qualcosa: credi e lasciati guidare dalla fede. Così la possibilità del rifiuto è molto reale: alla parabola manca la necessaria evidenza. (B. XVI, “Gesù di Nazaret”, prima parte, p. 228-9).
Veniamo allora al nostro tempo.
Il paragone del seme e del terreno da molti anni viene usato nell’insegnamento del Metodo Billings (sulla regolazione naturale della fertilità) per illustrare gli eventi della maternità, in cui il corpo della donna è il campo e il seme è quello che deriva dall’unione con l’uomo.
Prendiamo ora l’affermazione che sottolineo di Papa Benedetto (“Attraverso la vita di tutti i giorni, Dio ci mostra chi siamo e che cosa dobbiamo fare di conseguenza”) e riferiamola ai primi nove mesi della vita umana, intendendo con “tutti i giorni” l’intero arco della gravidanza, dal concepimento al parto: ebbene, quest’arco prodigioso lo possiamo definire “la meravigliosa parabola del grembo”.
Essa è evidentemente una realtà notissima, ma per coglierne il mistero che traspare non basta di per sé la conoscenza scientifica. Infatti, ai molti che vivono oggi nella presunzione cieca e sorda dell’“inesistenza” di Dio, Egli dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete; guarderete, sì, ma non comprenderete” (Mt 13,14).
E la parabola del grembo è questa: per mezzo degli eventi biologici che riguardano la vita del concepito, da quando Dio la crea in un punto-istante preciso tra le pieghe mucose della tuba uterina, al momento-luogo della sua fusione con la parete materna pochi giorni dopo, al tempo successivo dell’architettura-crescita del corpo del bambino nel grembo fino al parto (cfr il Salmo 139/138), Dio ha voluto rivelare per similitudine la verità divina della vita umana, quale progetto eterno di felicità “in Cristo” (come il figlio nella madre), e libera predestinazione ad essere progressivamente conformati alla “sua immagine” (la crescita di mese in mese), mediante “l’adozione a figli” nella Chiesa, Madre dei credenti (Ef 1,3-5).
Nel Figlio di Maria, infatti, Dio stesso si è fatto Soggetto e Verità della meravigliosa parabola del grembo umano (Lc 1,26-38).
Il suo messaggio è tale da mostrarci e farci capire qualcosa che è impossibile vedere e comprendere con la sola ragione.
Non si tratta solamente della dignità e del valore divino di ogni vita umana, comunque concepita, ma del lieto annuncio che non esiste ciò che potrei chiamare il “fallimento della vita prima di nascere”, vale a dire l’apparente non-senso dell’esistenza di quei figli che muoiono prematuramente nel grembo, o per causa naturale, o per l’iniqua mano dell’uomo. Lo stesso vale per le innumerevoli morti umane dovute alle gelide e perverse tecniche della fecondazione artificiale.
Per il cristiano, infatti, ilfallimentonon è il male maggiore, perché in definitiva, non esiste nemmeno. Chi, infatti, ha fallito la sua vita più del Figlio di Dio Gesù Cristo, crocifisso come un malfattore sul Calvario? Eppure a quelfallimentoè legata la salvezza di tutti noi, quelfallimentoci ha restituiti alla pace di Dio Padre, alla pienezza perduta della vita.
Se accettiamo e vediamo i nostri fallimentiesistenziali nella luce della fede, come partecipazione al Mistero della Morte salvifica di Gesù, essi diventano un prolungamento del suo fallimentoignominioso, diventano suoi, e da essi, come dal grano di frumento che marcisce entro la terra, nasce, per la forza di Cristo Risorto, il molto frutto della Vita eterna.


12 July, 2011

Card. Sarah: non vogliamo solo tecnici, ma testimoni di Cristo
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Un congresso analizzerà l'identità cristiana delle ONG cattoliche
ROMA, venerdì, 8 luglio 2011 (ZENIT.org).- Restituire all’identità caritativa quella cristiana, cioè far capire che quella sorgente nasce da Dio, è l’obiettivo del Congresso per il volontariato cattolico che si svolgerà a Roma il 10 e l'11 novembre prossimi.
Lo ha indicato questo giovedì il Cardinale Robert Sarah, Presidente del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, in una colazione di lavoro a Roma con giornalisti di diversi mezzi stampa che hanno partecipato al corso di informazione religiosa all’Università della Santa Croce.
“Non sarei qui se non avessi visto uomini morire per me, che mi hanno dato la fede, la cultura e tante altre cose”, ha detto con emozione il Cardinale, che negli anni '80 è stato Vescovo di Conakry (Guinea) e si è salvato durante alcune persecuzioni in Africa.
Il porporato ha ricordato come in molti Paesi “la vera mancanza non è di cibo o di vestiti, ma di Dio”, e che Benedetto XVI ha indicato come questo vuoto sia “causa di sofferenza nella società”.
Il numero totale dei volontari in Europa sono circa 140 milioni, anche se è molto difficile da precisare.
Al Congresso saranno presenti responsabili di associazioni di volontariato di ispirazione cattolica, ma sono state invitate anche autorità dell’Unione Europea come Kristalina Georgieva, incaricata per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari con delega al volontariato.
La due giorni sarà un passo in più di un percorso iniziato qualche anno fa con l’Enciclica di Benedetto XVI Deus Caritas Est e proseguito con gli esercizi spirituali prima continentali e poi ripetuti a diversi livelli, seguiti da vari incontri con i Vescovi.
In questa prospettiva si inserisce anche la riforma di Caritas Internationalis, che ha celebrato a maggio la sua Assemblea Generale alla presenza di rappresentanti delle 165 organizzazioni membro, “con nuovi statuti che dovranno essere approvati e che stanno andando nella giusta direzione”.
“Non vogliamo soltanto dei tecnici” tra i volontari, ha sottolineato il Cardinale, ma che questi siano anche testimoni di Cristo, soprattutto se si lavora nelle missioni.
Il porporato ha tracciato una panoramica del lavoro del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, voluto da Paolo VI, che si occupa della carità del Papa e della Chiesa, della catechesi della carità nei diversi continenti ed è un referente e uno strumento di coordinamento delle associazioni di volontariato presso la Santa Sede, oltre a organizzare in prima persona azioni umanitarie d'emergenza.
Tra queste ultime c'è quella realizzata recentemente in Giappone, dove ha inviato 150.000 euro nei giorni immediatamente successivi allo tsunami. Il Cardinale ha considerato notevole la capacità di organizzazione del Giappone, dove a due mesi dal disastro si stava già iniziando a ricostruire.
Un altro intervento è ad Haiti, dove sono stati inviati dalla Chiesa cattolica nel complesso circa 300 milioni di dollari, di cui 1,2 a titolo personale di “Cor Unum”. Qui, purtroppo, ha constatato il Cardinale, esiste una notevole difficoltà di coordinare gli interventi, motivo per il quale le associazioni agiscono un po' per proprio conto.
Interpellato sulla povertà di un continente così ricco come l’Africa, se sia colpa dei dirigenti locali o degli investitori esteri, il porporato ha affermato: “Non dobbiamo negare la nostra responsabilità, ma anche quella dei potenti. Se ci sono corrotti è perché ci sono corruttori”.


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